Di seguito vi riportiamo il saggio realizzato da Marco Duse e pubblicato nel n. 168 della rivista “Cabiria” e dedicato al film K. Metamorfosi di Lorenza Mazzetti. Il film, realizzato nel 1953, è stato recentemente restaurato dal Cinit e viene presentato in anteprima a Ezechiele mercoledì 5 ottobre.
Lorenza Mazzetti si avvicina alla Metamorfosi di Franz Kafka giovanissima. Già all’inizio degli anni ’40, sente parlare del racconto dallo zio Robert Einstein e da un amico di famiglia, quel professor Rodolfo Paoli (docente di letteratura tedesca all’Università di Firenze) responsabile della traduzione italiana della Metamorfosi pubblicata nel 1934 dall’editore Vallecchi.
Gli anni che conducono alla realizzazione del mediometraggio K sono, per Lorenza Mazzetti, anni di grande dolore e di sradicamento: oltre agli sconvolgimenti causati dalla seconda guerra mondiale, Lorenza (assieme alla sorella Paola) assiste allo sterminio della famiglia Einstein1 per mano nazista; si allontana dunque dall’Italia facendo tappa dapprima in Francia, dove alloggia presso l’abitazione parigina di Marguerite Duras2, e poi a Londra.
L’arrivo nel cuore del Regno Unito è rocambolesco, ma la vita di Lorenza sembra stabilizzarsi quando riesce ad iscriversi, per diretto interessamento del direttore William Coldstream, alla Slade School of Fine Art. È qui, tra i fermenti culturali delle Belle Arti londinesi, che la Mazzetti decide di tornare a Kafka per raccontare la propria personalissima odissea spirituale, il senso di spaesamento (non ancora placato) provato nel trasferirsi a Londra, il suo sentirsi distante dall’ordinarietà quotidiana per via dei traumi subiti (e tenuti nascosti ad amici e colleghi) nonché di un’emergente sensibilità estetica.
L’approccio mazzettiano alla Metamorfosi, sebbene avvenga in un contesto poco più che amatoriale, è altamente sperimentale sia nell’uso delle tecniche di ripresa, montaggio e sonorizzazione, sia nell’adattamento del testo e delle tematiche kafkiane. K viene girato nel 1953 in 16mm e montato dalla stessa Mazzetti senza l’utilizzo di apparecchiature professionali. Generalmente, il film viene datato 1954 perché solo allora si tennero le prime proiezioni pubbliche, tra cui alcune particolarmente fortunate in Belgio, dove K fu selezionato da Ernest Lindgren per “illustrare” una serata dedicata al cinema d’essai e sperimentale intitolata, significativamente, L’Avenir du Cinéma (Palais des Beaux-Arts, Bruxelles, 2 aprile 1954).
K si distingue per l’arditezza di alcune inquadrature (sbilenche, allusive, altamente significanti); per l’inedito rapporto tra il sonoro e l’immagine (scollegati l’uno dall’altra, viaggiano paralleli suggerendo un senso di dislocazione); per alcune scelte di montaggio non convenzionali; per l’uso avanguardistico delle musiche, firmate da Daniele Paris (talvolta ironiche e beffarde, altre volte drammaticamente atonali e concrete)3.
Anche la rilettura del testo kafkiano è, a suo modo, rivoluzionaria. Innanzitutto perché K non prevede la trasformazione di Gregor Samsa in un insetto: in questa “Metamorfosi secondo Lorenza Mazzetti” non avviene nessuna metamorfosi, almeno non in senso stretto. Inoltre, l’autrice preleva dal testo soltanto quegli elementi che si confanno alle sue esigenze espressive, scarnifica il racconto kafkiano e amplifica la tematica dell’esclusione e dello sradicamento; attribuisce al film, e al personaggio di Gregor in particolare, forti caratteristiche autobiografiche; aggiunge infine momenti inediti, di natura evanescente e onirica, che creano un clima di sospensione e di definitivo straniamento. La metamorfosi serve a Lorenza Mazzetti da palinsesto sul quale sviluppare una personalissima visione dei temi kafkiani, una visione che tiene conto anche di altre opere dell’autore4 e che è imbevuta di una tendenza all’esistenzialismo probabilmente assorbita durante il soggiorno in Francia (dove la Mazzetti entrò in contatto, fra gli altri, con Sartre e Camus).
Il Gregor kafkiano si risveglia, un mattino qualsiasi, completamente trasformato. In K, invece, vediamo un Gregor Samsa in preda a progressive crisi (di identità?) che gli rendono sempre più difficile alzarsi dal letto. Dovrà passare qualche giorno prima che la sua alienazione divenga totale e che Gregor rimanga barricato nella sua stanza – prima cioè che i suoi tentativi di conciliazione con il mondo esterno falliscano definitivamente.
A ridosso della pubblicazione, è Kafka stesso a proibire illustrazioni del suo libro che rendano visibile la metamorfosi. Autorizza però eventuali disegni in cui appaiano la famiglia Samsa inorridita e la porta socchiusa della camera di Gregor. Per Kafka, dunque, il fulcro del racconto sono la famiglia e la sua reazione all’orrore della metamorfosi. Lorenza Mazzetti, invece, mostrandoci un Gregor cambiato ma non metamorfizzato, sposta l’asse proprio su Gregor, sul suo dolore, sul suo male di vivere.
La Mazzetti trasforma il materiale kafkiano in un radicale racconto di alienazione, anche a costo di tradire o di sovrainterpretare la poetica dell’autore. Privato del suo corpo animale, il Gregor Samsa di K non è un mostro a tutti gli effetti, ma solo agli occhi di coloro che così lo intendono: i familiari, il datore di lavoro, il mondo esterno e – sembrano suggerire alcuni sguardi in macchina del protagonista – anche il pubblico o parte di esso.
Gli intenti di Lorenza Mazzetti sono chiari: all’inizio del film, cala il suo Gregor in un traffico urbano e umano soffocante – e alla fine lo chiude (per sempre?) in uno stanzino angusto (simile a quello in cui viveva, al tempo, la stessa Mazzetti), ingombro di oggetti usati e destinati all’oblio. La traiettoria che la Mazzetti ha disegnato per Gregor è inesorabile: dapprima sperimenta lo spaesamento e lo scollamento dalla realtà quotidiana; quindi, stanco dell’ossessiva spirale del ciclo casa-lavoro-casa, si risveglia “trasformato” perché desideroso di abbracciare qualcosa che trascenda l’ordinario5; infine, il Gregor di K non muore colpito dal padre, ma è condannato a vivere una vita che non lo comprende.
Le prime inquadrature di K collocano Gregor in un preciso qui e ora: le strade, i mezzi di trasporto, gli abiti delle comparse, i primi piani insistiti sui volti della gente comune, la ruvidezza quasi documentaristica delle riprese, l’assenza di interventi scenografici e fotografici stabiliscono che l’azione si svolge nella Londra dei primi anni ’50, “as found”. K dunque trasla il testo kafkiano e lo innesta nella realtà contemporanea alla regista, ponendosi così come un’attualizzazione della Metamorfosi in cui alcuni tratti salienti del personaggio di Gregor si rivelano utili per raccontare la crisi, precipuamente spirituale, del secondo dopoguerra. Ecco spiegato perché, innanzitutto, la metamorfosi di Gregor in K non è fisica ma metafisica: la seconda guerra mondiale, oltre ad aver popolato la terra di “mostri” che incarnavano e rendevano obsoleta qualsiasi fantasia (invalidi, mutilati, deformati dalle radiazioni), ha generato altri “mostri” meno appariscenti ma ancora più “diversi”, vale a dire i reduci, i sopravvissuti. K indaga questa seconda diversità, la diversità di chi si ritrova mutato nello spirito ma non nel corpo, di chi ha subito una mutazione non manifesta. Nel dopoguerra, d’altro canto, inizia una ricostruzione (non solo urbana, ma anche civile e sociale) che tende a restaurare una rinnovata e rigida “banalità del quotidiano”. È di fronte a questo scenario che la Mazzetti si appropria del pensiero esistenzialista: dinanzi a una società che vuole sovrascrivere la memoria, l’uomo è costretto a scegliere fra l’“essere e il nulla” – e chi sceglie di “essere”, di esprimere se stesso affermando l’unicità della propria identità, è destinato a scontrarsi con una società ormai massificata che ingloba l’average man ma respinge l’“alieno”.
Nel 1956 Colin Wilson pubblica il suo saggio sulla figura dell’outsider nella cultura occidentale6: Lorenza Mazzetti, che nel frattempo ha già girato Together, legge il libro e si trova perfettamente in sintonia con l’analisi di Wilson, rispecchiandosi nel complesso ritratto dell’outsider offerto dal giovane saggista. Da allora Lorenza Mazzetti cita sempre il lavoro di Wilson in relazione ai suoi film londinesi, sebbene questi siano stati concepiti e girati prima della pubblicazione di The Outsider.
Cosa c’è, in The Outsider, di sovrapponibile alle posizioni mazzettiane sull’alienazione? Innanzitutto, l’outsider è in perenne ricerca del proprio io, della propria (vera) identità7. In secondo luogo, è dotato di una sensibilità superiore, che gli permette di cogliere verità inafferrabili (ragione per cui l’outsider si esprime come artista, poeta e profeta – spesso inascoltato), ma che al contempo lo espone al dolore e al tormento interiori. Il destino dell’outsider è quello di contemplare e comprendere il mondo, restandone però escluso. Ecco perché, nonostante sia l’unico a rendersi conto del male che affligge la società a lui contemporanea, l’outsider finisce col «rinchiudersi nella sua stanza, come un ragno in un antro oscuro»8. La conformazione caotica della città moderna acuisce la tendenza all’isolamento. Parlando di Londra, la stessa Londra in cui viveva Lorenza Mazzetti, Wilson scrive: «la città in sé, la confusione creata dal traffico e dagli esseri umani in Regent Street, possono sopraffare una personalità debole e farla sentire insignificante»9. L’outsider, inoltre, si ritrova intrappolato in un circolo vizioso: qualora cercasse di inserirsi nel mondo e nella società, di divenire cioè un insider, verrebbe riconosciuto come un outsider e nuovamente spinto fuori, ai margini10.
Alla Slade School, Lorenza Mazzetti conosce il giovane e talentuoso Michael Andrews, promettente pittore, al quale affida il ruolo di Gregor. Scegliendo un artista per interpretare la parte di un outsider, la Mazzetti postula il principio di incompatibilità tra l’artista e il mondo. L’inadeguatezza è connaturata all’artista ed è di carattere sia psicologico sia fisico. Lo dichiara la stessa Mazzetti parlando di Andrews (e, indirettamente, di sé): «Ha una gentilezza innata, mi domando come farà a vivere nel mondo reale senza spezzarsi in due come un fuscello»11.
K è dunque un saggio sull’outsider che precede e sintetizza quello di Wilson e che dimostra come Lorenza Mazzetti possedesse l’intuito della grande anticipatrice12. Un intuito grazie al quale, pur rimanendo fuori dal dibattito sul realismo cinematografico in atto in quegli anni in Gran Bretagna, Lorenza Mazzetti sposa (a suo modo) già con K la causa di un cinema maggiormente concentrato sulle marginalità, in linea con le posizioni di Lindsay Anderson e Gavin Lambert, di riviste quali «Sequence» e «Sight and Sound» nonché del futuro manifesto del Free Cinema (che la Mazzetti firmerà nel 1956 assieme ad Anderson, Karel Reisz e Tony Richardson).
Per raccontare la sua parabola sull’alienazione e sulla marginalità, Lorenza Mazzetti si appropria del linguaggio cinematografico e lo piega alle proprie esigenze espressive, compiendo scelte stilistiche e tecniche ardite.
Le inquadrature, sia soggettive sia oggettive, sono spesso sbilenche, sghembe; una in particolare arriva, con fare quasi espressionista, a collocare Gregor lungo la diagonale dello schermo. Sono momenti che dichiarano il rapporto inclinato, obliquo, conflittuale, fra Gregor e la realtà – momenti che interrogano lo sguardo, sbilanciandolo e privandolo dei basilari punti di riferimento: un personaggio come Gregor non può essere contenuto o compreso nell’ordinarietà di un’inquadratura perfettamente bilanciata, non tanto perché Gregor sia un essere superiore e altro, quanto perché si comporta da elemento di disturbo, di squilibrio, la cui presenza crea disordine. D’altra parte, quand’è Gregor ad osservare il mondo assistiamo ad una simile distorsione del quadro: più avanza il processo di alienazione, meno la realtà gli appare dotata di senso. La sua soggettiva dunque vaga spesso senza meta in cerca di un punto di appoggio, di un punto di stabilità sempre negato.
Sul finale del film, alla soggettiva di Gregor è riservato il compito di ristabilire i rapporti di potere: quando il padre chiude la porta per l’ultima volta, Gregor lo osserva dal basso, rispettando l’intuizione kafkiana per cui Gregor coglie, del padre, solo le scarpe (che gli paiono enormi). Gregor è dunque costretto a riconoscere, pur senza accettarla, l’imponenza dell’autorità. Questo schiacciamento della prospettiva corrisponde ad uno svilimento delle aspirazioni, ad un abbassamento degli orizzonti, ad un annullamento di sé.
Poco prima, la soggettiva si era fatta altrettanto caratterizzante, sviluppando la trovata tutta mazzettiana dell’inquadratura delle mani di Gregor che scivolano sul tappeto del salotto. Dopo aver allargato gli orizzonti scopici del suo personaggio nelle sequenze sui tetti e sulla gru (che discuteremo a breve), Lorenza Mazzetti riduce drasticamente e drammaticamente tali orizzonti13: nel quadro, nello sguardo di Gregor, c’è spazio solo per le sue mani, mani che Gregor morde negli ultimi fotogrammi del film, come per appropriarsene (per fare sue almeno quelle: non gli è rimasto altro). Lo sguardo di Gregor viene ridotto a sole due angolature: quella dal basso verso l’alto, che enfatizza la piramide delle gerarchie dalla quale il personaggio è schiacciato, e quella dal basso verso il bassissimo, che frustra lo sguardo e lo costringe ad alimentarsi delle immagini che provengono da un micromondo ristrettissimo.
Entrambi i lavori londinesi di Lorenza Mazzetti, K e Together, si distinguono per un uso anticonvenzioanle del sonoro. Se in Together l’alterazione del suono è un atto “dovuto”, essendo i protagonisti due sordomuti, in K il trattamento del parlato, delle musiche nonché dei silenzi è altamente significante. Il tratto maggiormente sperimentale, in questo senso, consiste nell’uso del doppiaggio non sincrono. Non potendo registrare il suono in presa diretta, la Mazzetti incide la voce di Michael Andrews in fase di post-produzione. La regista riesce però a trasformare un limite tecnico in un’occasione di manipolazione del suono in senso creativo. Le frasi pronunciate da Andrews si distinguono per il loro tono monocorde e la loro monotematicità: Gregor parla solo del proprio lavoro e della condizione finanziaria della famiglia – e il suo parlare resta inascoltato (è lui stesso a chiedere più volte: «Sir, do you hear me?»). Le frasi, completamente scollate dal labiale dell’attore, vengono pronunciate e ripetute senza sosta. Non c’è differenza, nella resa sonora di queste battute, fra interni ed esterni, fra primi piani e piani più larghi: le frasi di Gregor suonano tutte uguali perché sono tutte ugualmente ininfluenti. In più, un leggero riverbero sembra sollevarle dalla superficie dello schermo, dislocandole: le parole non appartengono né a Gregor (che le ripete meccanicamente, come non fossero genuinamente sue) né al racconto (sono trascurabili dal punto di vista della diegesi) né alla realtà che circonda i personaggi (sono parole che non “catturano” il reale). Il Gregor trasformato, infatti, smetterà di parlare, sbarazzandosi di un linguaggio inutile, alternando i silenzi interiori alle esplosioni musicali (di natura allucinatoria), al contrario del suo corrispettivo kafkiano che inizia il suo racconto monologante proprio a partire dalla sua metamorfosi.
Il punto in cui le musiche di Daniele Paris abbandonano la disarmonia e si avvicinano, per quanto possibile, a ciò che può essere considerato un tema coincide con il momento di massimo distacco di Gregor dalla realtà. Se le dissonanze caratterizzavano la sfera del reale, la fuga da esso è accompagnata da un motivo più regolare e ritmato, dotato di una parvenza melodica.
Così come nel racconto kafkiano Gregor diviene massimamente felice quando prende coscienza del suo corpo d’insetto, lo accetta e ne sfrutta le potenzialità (si arrampica sui muri, cammina sul soffitto…), il momento di maggior euforia del Gregor mazzettiano coincide con l’affermazione della propria identità altra, resa attraverso le scene in cui Gregor saltella sui tetti e sui cornicioni delle case dell’East End londinese e si “sgancia” dalla realtà terrena lasciandosi sollevare da una gru. Mentre però il Samsa di Kafka può godere del suo corpo mostruoso almeno fino alla morte, al Gregor mazzettiano (in una svolta intimamente pessimista) non è consentito salire realmente sui tetti né librarsi nell’aria appeso ad una gru. Secondo la nostra interpretazione, infatti, la sequenza in questione rappresenta un’allucinazione, un sogno: è infatti girata leggermente in slow motion, per accentuarne il carattere di irrealtà e la continuità con il regime onirico. Le pesanti valigie da lavoro di Gregor si fanno qui leggerissime e diventano oggetti di scena per un equilibrismo di stampo circense. Il montaggio associa a Gregor l’immagine di un suonatore di strada, che porta sulle spalle tutti i propri strumenti: è un accostamento che suggerisce euforia e vitalità ma anche autosussistenza. Nel “suo” mondo, Gregor può bastare a se stesso, “suonare la propria musica”, trovare in sé la chiave per la sopravvivenza. Purtroppo, la danza sui tetti non è che una fuga fantastica, e il Gregor reale è destinato e costretto a rimanere inespresso.
La sequenza è preceduta da un momento altamente poetico (di quella poesia per immagini che piaceva a Humphrey Jennings e ad Anderson) in cui Gregor osserva e ascolta la pioggia dalle finestre della sua stanza. La macchina da presa, attraverso la soggettiva di Gregor, cerca le suggestioni della luce e del controluce, seziona il quadro con i disegni geometrici dell’intelaiatura, contempla le silhouette solitarie delle mani contro il vetro. Il sonoro è costituito dal solo rumore della pioggia battente. Le disarmonie del presente si sono placate: il suono della pioggia suggerisce l’esistenza di una dimensione ulteriore. Il picchiettare favorisce la transizione verso una musica più strutturata e più ritmata, porta con sé un ritmo naturale e vitale al quale Gregor si rivolge. Con la fantasia, abbiamo visto, Gregor visiterà i luoghi da cui proviene la pioggia, si spingerà verso il cielo, assumendo per pochi attimi quella natura angelica che è propria dell’outsider e che la Mazzetti ha individuato come caratteristica fondamentale del suo personaggio («Bisognava […] che la famiglia di Gregor provasse ribrezzo per qualcosa che era sì diverso, ma nel senso di altro, di bellissimo, di angelico addirittura»)
In chiusura, vogliamo discutere una scelta di montaggio insolita ma rivelatrice operata all’interno di una sequenza apparentemente ordinaria. Nelle scene in questione, Gregor segue il suo datore di lavoro lungo la strada. Continuando a parlargli e non venendo ascoltato, gli gira intorno14 e presto inciampa e cade. Un taglio netto ci mostra per qualche secondo Gregor in camicia da notte, a quattro zampe nella sua stanza. Un successivo stacco ci riporta alla sequenza principale, che vede Gregor rialzarsi e raccogliere le sue cose.
L’inserzione giunge inattesa ma si rivela illuminante. Innanzitutto, la sua posizione (tra la caduta di Gregor e il suo rialzarsi) ci indica che il Gregor che si rimette in piedi non è più lo stesso Gregor. Qualcosa è intervenuto, nel momento stesso della caduta, e ha modificato la natura del personaggio: la sua metamorfosi, già accennata in precedenza, precipita definitivamente a partire da qui. Questa improvvisa ferita di montaggio va intesa come un lapsus, un flashforward, che dischiude un futuro ineluttabile e già presente.
Per spiegare cosa intendiamo, ci rifacciamo agli studi che Ervin Goffman stava sviluppando negli anni in cui venne girato K e che ritroviamo nel famoso saggio La vita quotidiana come rappresentazione (una delle “bibbie” di quel periodo, assieme a L’io diviso di Ronald D. Laing). Mentre cammina per la strada col suo datore di lavoro, Gregor veste la maschera della propria quotidianità, quella che Goffman chiama “facciata”15: il Gregor “diurno”, lavoratore indefesso, commesso viaggiatore intraprendente, non è che una rappresentazione (intesa anche in senso teatrale). Con il suo abito, il cappello, le due valigie, l’incedere, l’atteggiamento, Gregor mette in scena un falso io che, seguendo il già citato Laing, sottostà «alle intenzioni o alle aspettative degli altri» (la famiglia, il datore di lavoro, la società) e che serve a «conservare una normalità esteriore della condotta»16. La caduta accidentale di Gregor interrompe la rappresentazione e il Gregor-attore esce momentaneamente dalla parte. L’impatto col suolo genera una breccia nella facciata e lascia intravedere il vero Gregor, il Gregor che sarà: alienato, diverso, scollato dal mondo, avvizzito, solo. La regressione di Gregor precipita a partire da qui, dal momento in cui la caduta rivela l’insostenibilità della maschera sociale fino ad allora adottata: Gregor si “risveglia trasformato” e inizia a cercare il suo vero io, salvo poi riscontrare che si tratta di un io per il quale non c’è spazio nel mondo circostante – e allora non gli resta che rifugiarsi nel microcosmo di una stanzetta ingombra e cominciare a sognare17.
Note
1. Si veda l’intervista a Lorenza Mazzetti, alla quale facciamo riferimento per tutte le dichiarazioni dell’artista prive di nota. Si vedano inoltre il catalogo della mostra di Lorenza Mazzetti Album di famiglia. Diario di una bambina sotto il fascismo, Associazione Culturale Voci della Terra, Roma 2010; e Raffaele Niri, Una strage nazista contro Einstein, «Il Venerdì di Repubblica», 4 febbraio 2011, pp. 97-98. Cfr. anche Lorenza Mazzetti Il cielo cade, Sellerio, Palermo 2007.
2. Per questo e per altri dettagli biografici rimandiamo a Giorgio Betti, L’italiana che inventò il Free Cinema inglese. Vita cinematografica di Lorenza Mazzetti, Vicolo del Pavone, Piacenza 2002.
3. Si vedano l’articolo di Maria Francesca Agresta pubblicato di seguito e il volume della stessa Agresta: Il suono dell’interiorità. Daniele Paris per il cinema di Liliana Cavani, Luigi Di Gianni, Lorenza Mazzetti, Libreria Musicale Italiana, Lucca 2010.
4. La K del titolo rimanda infatti a Kafka, ossia all’autore e alla sua poetica piuttosto che alla singola opera. Inoltre, la Mazzetti gira il suo film avendo ben presenti sia Il castello (dichiara infatti: «mi sentivo come Kafka che non entrerà mai nel castello; sentivo che non avrei mai avuto un rapporto sereno con gli altri») sia Un medico condotto, dal quale trarrà un film, séguito ideale di K, oggi perduto. Lorenza Mazzetti ricorda anche di aver lavorato a un ulteriore film tratto da Kafka, Il colpo alla porta, del quale però non vi è alcuna notizia.
5. Anche qui scorgiamo un forte tratto autobiografico. Lorenza Mazzetti dichiara infatti: «ad un certo punto, stanca di lavare tazzine al bar, ho capito che non potevo vivere così, in quel mondo limitato nel quale non sapevo più chi ero…».
6. Colin Wilson, The Outsider, Phoenix, Londra 2001. La traduzione delle successive citazioni è nostra.
7. Cfr. Idem, pp. 147, 153.
8. Idem, p. 84.
9. Idem, p. 25. All’inizio di K, Gregor percorre le vie intasate dal “traffico umano” controcorrente, contromano.
10. Cfr. idem, p. 105.
11. Lorenza Mazzetti, Diari londinesi, in A proposito del Free Cinema Movement (Catalogo della mostra di Lorenza Mazzetti), Associazione Culturale Voci della Terra, Roma 2010, p. 15.
12. Il tema dell’outsider permea anche l’opera letteraria di Lorenza Mazzetti. Non tanto il suo romanzo più famoso, Il cielo cade (1961), quanto quello successivo, il dolente e ribelle Con rabbia (1963), in cui Kafka viene citato a più riprese e la cui protagonista Penny (trasfigurazione autobiografica della Mazzetti) constata: «Tutto è pronto per la vita meno io» (Lorenza Mazzetti, Con rabbia, Garzanti, Milano 1969, pp. 181-182).
13. Anche la conformazione della camera di Gregor contribuisce al restringimento degli orizzonti: il suo stanzino si fa sempre più angusto e sempre più ingombro di oggetti, come se anche Gregor venisse considerato un rifiuto, un “avanzo”, in perfetta consonanza con il personaggio kafkiano.
14. Qui i movimenti di Michael Andrews si fanno saltellanti e “scodinzolanti” come quelli di un cagnolino – che infatti viene inquadrato subito dopo, in un momento non troppo esplicito di montaggio associativo.
15. Cfr. Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 33-46.
16. Ronald D. Laing, L’io diviso, Einaudi, Torino 1997, pp. 97-98. Aggiunge Laing che, dopo aver sviluppato un falso io, «si è “se stessi” solo nell’immaginazione, o nei giochi, o di fronte a uno specchio» (idem, p. 97), come succede a Gregor quando immagina di danzare sui tetti. Indubbiamente, in K si riscontrano echi di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller (1949), a proposito del cui protagonista, Willy Loman, l’autore scrisse: «Egli è il tipo d’uomo che si vede parlar da solo nella metropolitana, diretto a casa o all’ufficio; è vestito correttamente, e sembra perfettamente integrato col suo ambiente, tranne che, a differenza di altri, Willy Loman non riesce più a impedire che la forza della sua esperienza spacchi la superficiale socialità del suo comportamento. Di conseguenza egli opera su due piani che spesso si scontrano» (Arthur Miller, Introduzione in: Id., Teatro, a cura di Bruno Fonzi, Einaudi, Torino 1978, p. 33).
17. La bibliografia riguardante K è ristrettissima. Oltre ai testi già citati, ricordiamo anche: Metamorphosis [K] (recensione), «The Film User», v. 8, n. 95, settembre 1954, p. 438; René Micha, Kafka à la Scène et à l’Écran, in «La Nouvelle Nouvelle Revue Française», a. II, n. 23, 1 novembre 1954, pp. 916-917; Lorenza Mazzetti, Come divenni scarafaggio, in «Cinema Nuovo», a. IV, n. 69, 25 ottobre 1955, p. 286; Bianca Sermonti, Lorenza Mazzetti: le donne non devono vergognarsi di vedere le cose diversamente dagli uomini, in «Rivista del Cinematografo», n. 8, agosto 1966, pp. 542-543.
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