Approfondimenti

VAGHE STELLE DELL’ORSA – Una critica di Alberto Moravia

VAGHE STELLE DELL’ORSA
di Luchino Visconti – Italia, 1965 – 100’ con Claudia Cardinale, Jean Sorel
Leone d’Oro a Venezia 1965

Una critica del film scritta da Alberto Moravia (L’Espresso, 1965)

Una ricca famiglia ebrea di Volterra: padre, madre, un figlio, una figlia, vent’anni dopo, cioè vent’anni dopo la tragica fine del capofamiglia, denunziato ai nazisti, deportato in Germania, mai più ritornato. La moglie impazzita per il dolore o forse chissà per il rimorso, andata sposa, subito dopo la morte del marito, ad un amante sul quale pesa il sospetto (da parte dei figli) di aver denunziato il rivale appunto per disfarsene e sposare la donna. Una figlia che sa o crede di sapere come morì suo padre e nutre propositi di vendetta. Un figlio innamorato della sorella la quale a sua volta non può fare a meno di contraccambiare il sentimento del fratello. Il ritorno della sorella, sposata ad un americano, a Volterra, in occasione dello scoprimento di una lapide in onore del padre; in realtà forse per incontrarsi con l’amato fratello. L’amore tra il fratello e la sorella. Il suicidio del ragazzo, troppo debole per sopportare insieme il peso della vendetta e dell’incesto. Il ritorno della sorella in America, al marito, e l’abbandono definitivo di Volterra e dei suoi cupi fantasmi.

Enumerando in questo modo tutti gli elementi dell’ultimo film di Luchino Visconti, Vaghe stelle dell’Orsa, si dà forse l’impressione di una storia unitaria, ben congegnata, strutturata su almeno tre livelli: quello della tragedia familiare, quello del dramma sociale politico e razziale, quello dell’incesto. A questa tragedia, come è stato già notato, hanno contribuito Sofocle, il D’Annunzio di Forse che sì forse che no, Thomas Mann e anche altri: Visconti è sempre stato un regista pieno di echi culturali. Ma quest’impressione di unità e di fusione ispirata alla storia scompare vedendo il film: stranamente nel film la tragedia familiare si allontana, diventa sfondo, atmosfera, ambiente. E in primo piano, con prepotenza, balza il rapporto incestuoso tra fratello e sorella. Perché questo? Per un motivo molto semplice: nel cinema la parola non è mai espressiva, il cinema, infatti, si esprime soprattutto per mezzo di immagini in movimento.

Ora in Vaghe stelle dell’Orsa la tragedia della famiglia ebrea di Volterra distrutta da una misteriosa delazione è più detta che rappresentata, in maniera teatrale ma senza il rigore del teatro, in un dialogo sovrabbondante ma in fondo soltanto allusivo. Se si isolano le immagini che riguardano il dramma della famiglia si hanno alcuni primi piani della madre folle e del padrigno sospettato, qualche paesaggio o interno, la finale cerimonia col rabbino. Per giunta queste immagini non hanno il carattere, per eccellenza cinematografico, di dire qualche cosa di diverso da quello che «mostrano». Invece l’incesto trova un’espressione convincente appunto secondo la norma succitata: gli interpreti dicono una cosa e nello stesso tempo ne fanno un’altra. Sì, Sandra e Gianni parlano della situazione familiare, del patrimonio, del patrigno e di tante altre cose; ma nello stesso momento i loro occhi si cercano e si scontrano, le loro mani lottano, si stringono, si allacciano, si tendono ad afferrare e palpare, ad accarezzare, le loro bocche quasi si sfiorano, le loro guance si sfregano, i loro capelli si confondono.

Visconti per quanto riguarda la tragedia della famiglia, si limita a darci il borbottio del rabbino e gli ululati di un vento di circostanza; ma per quanto riguarda l’incesto, insegue Gianni e Sandra di stanza in stanza, ci fa vedere il torso nudo del ragazzo, il suo volto infiammato dal desiderio, la sua bocca e i suoi occhi; e il seno, gli occhi, le spalle, le mani, la bocca, la schiena della sorella. La macchina da presa riesce a fare di Gianni e di Sandra due personaggi cinematografici, appunto perché ce li illustra con le immagini; ma la madre e il padrigno sono invece due personaggi teatrali, tra il verismo e il decadentismo, appunto perché sono parlati ma non rappresentati.

Visconti, come tutti sanno, ha oscillato per tutta la sua carriera tra il decadentismo di specie rinascimentale e dannunziana sentito come fatalità e tentazione di un mondo fascinoso corrotto e perituro e l’aspirazione ad un mondo nuovo e purificato. Qualche volta ha saputo fondere le sue esigenze, oppure ce le ha date come contrasto e lacerazione. Qualche altra volta invece, si è tenuto al solo decadentismo, cioè ha dimezzato la propria tematica. In Vaghe stelle dell’Orsa il decadentismo rimane solo e domina; donde, nonostante un’apparente tragicità, la mancanza della tragedia: il dramma di Visconti era appunto di non saper rinunziare, di sentirsi dilaniato tra due mondi, quello nuovo che avanza, quello vecchio che scompare. Abolito uno dei termini del contrasto, Visconti ha fatto un film tutto decadente nel quale la frenesia dei personaggi nasconde il carattere immobile ed elegiaco del rapporto erotico-sentimentale tra fratello e sorella.(…)

Alberto Moravia

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